giovedì 6 maggio 2010

:: Favole E Brividi Dal Future Film Festival 2006

Articolo del 2006 a doppia firma Kitty (IOIOI) + Carmilla (my little sister Lucilla :)
Reportage dal FFF 2006, Bologna, Italia.

Kathodik - Transasia Special Future Film Festival 2006
Favole E Brividi Dal Future Film Festival Di Bologna.
(Ottava Edizione, 18-22 Gennaio 2006)

di Carmilla ( splappis@yahoo.it ) e Kittychan ( kfraticelli@hotmail.com)


Da Sandman alla Terra delle Ombre : MirrorMask
MIRRORMASK 
UK-USA 2005

Regia: Dave McKean
Sceneggiatura: Neil Gaiman, Dave McKean
Interpreti: Stephanie Leonidas (Helena), Gina McKee (Joanne), Rob Brydon (padre di Helena )



Anteprima italiana al Future Film Festival, MirrorMask ha origine da una proposta rivolta a Neil Gaiman dalla Jim Henson Company, nota casa  produttrice di film fantasy, tra cui l’intramontabile Labyrinth. Racconta Gaiman, nel corso di un incontro con il pubblico di Bologna nel Giugno del 2005, di aver accettato di scrivere la sceneggiatura del film soltanto alla condizione che a dirigerlo fosse Dave McKean, tra i suoi più preziosi collaboratori dal 1986, autore delle copertine di Sandman  e illustratore di altri svariati progetti editoriali dello scrittore (quale ad esempio il cupo libro per l’infanzia Coraline).
Gaiman, padre di Sogno degli Eterni,  rimane fedele ai propri temi e  sviluppa nel film la storia  di un sogno bizzarro e vorticoso, che inevitabilmente si confonde con la vita o addirittura la sostituisce  lungo i sentieri della crescita e della conoscenza di se stessi. Helena (Stephanie Leonidas), la giovane protagonista, proviene da una famiglia di circensi e desidera più di ogni altra cosa abbandonare il mondo dei giocolieri per vivere una vita reale. Dopo l’ennesimo conflitto con i suoi genitori, viene a conoscenza della grave malattia della madre: è a questo punto che ha inizio il suo visionario sogno nelle Terra delle Ombre, alla ricerca di MirrorMask, il sacro amuleto che le consentirà di salvare la Regina Bianca (sua madre) dal sonno eterno e di liberare se stessa dalle insidie della Regina Nera  e della sua figliastra (alter-ego di Helena, dark lady ribelle e trasgressiva). Se il tema è dunque quello di un percorso di liberazione e salvezza (la madre di Helena guarisce, Helena ritrova l’armonia con la sua vita e la sua famiglia) non è sbagliato paragonare il viaggio onirico di MirrorMask  a quello di Alice e delle altre eroine della nostre fiabe, che nel Paese delle Meraviglie compiono passi incerti, ma decisivi, verso l’età adulta. E’ lo stesso Gaiman ad affermare il fascino di questa trasformazione, ”ovvero il passaggio dall’essere ragazza all’essere donna […] Come smetti di essere una ragazza e diventi una giovane donna? Puoi impedire questo cambiamento? Che significato ha? ”.
Al di là dei temi e degli intenti, comunque, ad emergere con prepotenza e ad entusiasmare il pubblico è l’immaginario vivace di Gaiman e McKean che, nonostante il budget limitato, sono riusciti a creare un mondo straordinario affidandosi solo alle proprie idee e alle abilità di un gruppo di giovani grafici appena usciti dal college (che, ammette scherzosamente Gaiman, “non erano nemmeno al loro primo film, ma erano al loro primo lavoro!”). E allora i sogni di Helena - e i nostri - si popolano di giganti orbitanti, di gatti-sfinge affamati, di libri dotati di personalità  e di esilaranti uccelli-scimmia dal becco cadente. I disegni si animano, come profili ritagliati su carta e impazienti di muoversi, ed è ancora nei disegni e attraverso i disegni che i personaggi viaggiano e si guardano. Le pareti delle stanza di Helena sono  un collage di illustrazioni, così come l’intera pellicola, nella necessità di riempire ogni spazio ed ogni istante di matita e di colore,  per renderlo inimitabile,  ossigenato e vivibile. MirrorMask è dunque un film che consacra la possibilità per i due autori – fra i più significativi nel fumetto contemporaneo – di farsi strada nel campo esigente del cinema e dell’animazione  conservando la coerenza e l’autenticità della propria opera  senza comprometterne quella delicatezza e anche quel fascino melanconico che da sempre la caratterizzano.




Storie di fantasmi giapponesi: Kwaidan e Yokai Daisenso

KWAIDAN 
Giappone, 1964
Regia : Koboyashi Masaki
Sceneggiatura : Mizuko Youko
Interpreti : Mikuni Kentaro; Aratama Michiyo; Watanabe Tatsuya; Kishi Keiko; Nakamura Katsuo; Tamba Tetsuro ; Nakemura Ganemon; Takizawa Osamu; Akagi Ranko.



Kwaidan, film ad episodi di Masaki Koboyashi (1964), viene presentato - insieme ad altre “spettrali” produzioni dell’epoca - all’interno della rassegna “Storie di Fantasmi Giapponesi”, con l’intento di rivelare le origini del new horror giapponese che, da qualche anno ormai, sconvolge  il mondo con i suoi incubi e il suo tragico rancore (Ring, Dark Water, Kairo). Il termine “kwaidan” nel suo uso corrente sta ad indicare un particolare tipo di racconto giapponese tradizionale, dai connotati  tragico-horror e pervaso di inquietanti archetipi del folklore dell’isola, primo fra tutti quello della donna fantasma dalla lunga chioma corvina che perseguita gli uomini assetata di vendetta (in altre parole un’antenata della Sadako di Ring). Koboyashi in particolare attinge all’opera letteraria di Yakomo Koizumi (alias Lafcadio Hearn) per ripercorrere - in quattro episodi - i temi propri del kwaidan:  gli  spettri animati dal “ju-on”, rancore (nel primo episodio, The black hair), l’amore tragico e delicato fra umani e donne  fantasma (secondo episodio, The woman of the snow), il richiamo ossessivo del passato che ritorna (con le sue battaglie e le sue vittime nel terzo episodio, Hoichi the earless), la fatalità  che condanna tutte le azioni umane (anche le più banali, come il bere una tazza di tè nel  quarto episodio, In a cup of tea). Il risultato è quello di un capolavoro horror, in assoluto fra i più affascinanti di tutti i tempi, in cui la tradizione nipponica, nei suoi aspetti più cupi e “soprannaturali”, trova un connubio perfetto con alcuni elementi di contaminazione “occidentale”, quali la scenografia pittorica (indimenticabili gli stendardi sanguinosi del terzo episodio, o i cieli stilizzati del secondo), a metà strada tra  arte tradizionale autoctona e cinema espressionista, o la sospensione della vicenda  fra realtà e irrealtà, e fra tempi interiori ed esteriori, che ricorda quella delle migliori produzioni “nouvelle vague”. Da segnalare inoltre è la colonna sonora di Toru Takemitsu che, fra ossessioni di rumori ed espansioni di silenzi, si completa alle immagini in maniera del tutto innovativa e si figura come elemento indispensabile nella creazione di ogni suggestione e tensione. Vincitore del Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1965, Kwaidan è il miglior esempio di fusione armonica tra origine e modernità in cui si realizza un torbido sposalizio fra paura ancestrale e arte visiva e in cui il soprannaturale non può che essere sinceramente creduto, nella sua terribile cupezza così come nella sua sconvolgente bellezza.



YOKAI DAISENSO 
Giappone, 2005
Regia: Takashi Miike
Sceneggiatura: Hiroshi Aramata
Fotografia: Hideo Yamamoto
Interpreti: Ryunosuke Kamiki, Hiroshi Aramata, Kiyoshiro Imawano, Chiaki Kuryama, Masaomi Kondo, Natsuhuko Kyougoku, Hiroyuki Myasako, Sakeyama Saamon, Bunta Sugawara, Mai Takahashi, Naoto Takenaka, Etsushi Toyokawa
 


Yokai Daisenso (La grande guerra degli Yokai) di Miike Takashi  viene proposto all’interno della stessa rassegna come esempio di modernizzazione di un altro archetipo fondamentale del genere “kwaidan”, quello degli “Yokai”, le divinità della natura e delle cose che vivono (in genere pacificamente) accanto agli uomini e che solo i bambini – e i puri di cuore – riescono a vedere. Nell’immaginario nipponico gli  Yokai assumono le forme più svariate, che spaziano da quelle di simpatici folletti, a quelle femminili di donna-sirena o donna delle nevi (quest’ultima presente, peraltro, anche nel secondo episodio di Kwaidan) fino a quelle di bizzarri oggetti animati, come l’incredibile ombrello saltellante con un occhio solo. Figli della più autentica tradizione animistica del Giappone - che agli Yokai ha dedicato diverse produzioni cinematografiche, compreso una popolare serie degli anni 60-70 diretta da Kuroda Yoshiyuki con il titolo di Yokai Monsters –  in Occidente gli Yokai hanno già da tempo appassionato gli amanti del genere facendo la loro apparizione, ad esempio, nei lungometraggi di animazione di Miyazaki , da Totoro alla Principessa Mononoke fino alla Città incantata. Ed oggi tornano agguerriti e inaspettatamente nell’ultimo lavoro di Miike Takashi che abbandona (ma non del tutto) la violenza di Audition e di Ichi the Killer per dedicarsi ad una favola, a metà strada tra horror e fantasy, in cui gli Yokai si alleano con il piccolo protagonista Tadashi per salvare il mondo e gli umani dal terribile demone Kato. Il film è un remake di un episodio omonimo del 1968 (Yokai Monsters 1: Spook Warfare)  tratto dalla stessa serie di Kuroda Yoshiyuki, a cui Miike aggiunge il suo estro: il risultato è una pellicola straordinaria, a tratti visionaria e spaventosa, a tratti commovente e dolcissima, in cui non mancano intervalli esilaranti (come quello in cui la battaglia di Tokio viene trasformata dai folletti in una folle festa) e da cui emergono, in maniera quasi anacronistica per i nostri tempi, il valore del rispetto per l’ambiente e per la vita che scorre in ogni componente del pianeta. Un film, dunque, dai colori anche ecologisti, in cui  Kato crea le sue armi da guerra dalla rabbia degli  oggetti usati e abbandonati (un attacco all’uso indiscriminato delle risorse della terra  e agli acquisti superflui?) e in cui uno yokai offeso decide di rimuovere ogni sentimento di odio e di vendetta per non assimilarsi agli umani, esseri ingrati e crudeli. Come ha dichiarato lo stesso regista (in occasione della presentazione del film all’ultima edizione del Festival di Venezia ) “forse dovremmo cominciare a guardare le cose da punti di vista diversi, e imparare dagli yokai”, quasi che ci fosse speranza per noi uomini di imparare a rispettare noi stessi e la vita;  eppure non possiamo che rammaricarci quando, alla fine del film, Tadashi si dimentica dei suoi amici yokai, perché è diventato adulto, come noi, e la magia è finita.



Per gli interessati ecco l’elenco di tutti i film della rassegna “Storie di fantasmi giapponesi”:
 
Yotsuya Kaidan (The Yotsuya Ghost Story, 1949) di Kinoshita Keisuke
Yotsuya Kaidan (The Yotsuya Ghost Story, 1959) di Misumi Kenji
Kwaidan (1964) di Kobayashi Masaki
Kaidan Botan-doro (The Bride From Hell, 1968) di Yamamoto Satsuo 
Yokai Daisenso (Yokai Monsters 1: Spook Warfare, 1969) di Kuroda Yoshiyuki
Hausu (House, 1977) di Obayashi Nobuhiko
Kairo (Pulse, 2001) di Kurosawa Kiyoshi
Yokai Daisenso (The Great Yokai War, 2005)di Miike Takashi















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:: Una preghiera in un mondo di violenza: DA TARANTINO A OTOMO YOSHIHIDE (by IOIOI, 2004)

Primo numero della rubrica "Transasia" per la webzine kathodik ; by IOIOI 2004 !


Transasia: Spazio Chill-Out Sull'Oriente

Una Preghiera In Un Mondo Di Violenza: Da Tarantino A Otomo Yoshihide. Nuova Rubrica e Nuova Folle Collaboratrice Kathodika.








Rubrica Scritta, Riscritta E Curata Da  Kittychan


kfraticelli@hotmail.com


Apriamo una rubrica sull’oriente. Gli ultimi arrivati in un rete fin troppo ingombra di ideogrammi, news e approfondimenti sulla cultura orientale. Il rimedio contro la saturazione, in ogni caso si sa, è tagliare in verticale; perciò contro l’affollamento di dossier, nicchie, espansioni per derive sempre più settoriali decidiamo  semplicemente di attraversare…Allora l’Oriente non è nient’altro che una zona di pertinenza, geografica e culturale, che si offre come un vincolo a pensare. L’assolutamente altro che ci costringe a tornare a noi, a mettere in movimento il pensiero, a lanciarlo lontano a condizione che torni sempre a noi e non si smarrisca piuttosto fra labirinti esotici ed indecifrabili. Un po’ alla maniera degli amici transessuali, che per concedersi di amare altri uomini passano per l’assolutamente donna. Beh, prendiamo in prestito questa singolare perversione per fare qualcosa di simile, una trans-rubrica che, mentre fissa l’Oriente raccoglie un senso per tutto ciò che ci è senza dubbio più prossimo e familiare! L’idea è di far confluire in questa zona una serie di appunti, emozioni, intuizioni e ossessioni che attraversino generi, canali, pregiudizi e noie di vario tipo, che permettano insomma all’immaginazione di accennare una timida danza.
Chiunque voglia parlare di Gackt così come della politica interna della Corea del Nord, che voglia raccontare la vita nel Nepal o proporre un autore Tailandese è il benvenuto.




Una preghiera in un mondo di violenza: DA TARANTINO A OTOMO YOSHIHIDE


Non riesco a  scrivere un film se non dopo aver trovato la musica!!”



Pare sia questo il manifesto estetico e creativo di Quentin Tarantino. Un manifesto che ha la dinamica di una formula magica, quella stessa nota formula che rese Pulp Fiction popolare tanto per la raffinata operazione narrativa, quanto per l’accattivante ritornello surf.
In Kill Bill 2, Tarantino lascia che siano i titoli di coda ad interpretare il proprio manifesto. Un'operazione del tutto legittima per un regista che fa del bricolage e dei giochi di enunciazione la risorsa del Mito. Sfumata la prima serie di credits, lo schermo diventa una pagina nera intarsiata di  bianchi ricami floreali ai lati, i titoli sfilano per file orizzontali, ordinate… una voce di donna intona una polverosa melodia giapponese, l’arraggiamento è lento, jazzato.
Ecco la formula magica, tributo, citazione, saccheggio e vocazione al tempo stesso. Il pezzo si intitola: Urami  Bushi e a cantare è Meiko Kaji, interprete che già ci aveva deliziati nel primo volume con Flower Of Carnage. Il cerchio si chiude.
Meiko Kaji,  fra le regine  del cinema nipponico anni 70, è la seducente e gelida protagonista del capolavoro cult di Toshiya Fujita,  Lady Snowblood (1973)  film “origine” -dalla struttura ai contenuti- di Kill Bill.
In Lady Snowblood Meiko Kaji è Yuki (Neve), una bambina che, rimasta orfana a causa della morte violenta della propria famiglia, viene affidata alla cure di un vecchio samurai. Yuki crescerà coltivando odio e facendo della vendetta una missione di vita. Ricorda qualcosa?
Ancor prima Meiko era stata Sasori (Scorpion) eroina della serie Female Convict Scorpion, alchimia di sottogeneri e metafora stralunata dell’emancipazione femminile.
Infine la ritroviamo nei panni di Keiko in Yakuza Graveyard (1976) di Fukasaku Sensei –quello di Battle Royale- sorella del boss del clan Nishida ed amante di un piedipiatti diviso fra il proprio dovere e l’amicizia per gli yakuza.
                  (foto: Meiko Kaji)      Tarantino sa giocare bene, tanto si muove fra le citazioni tanto se ne sbarazza, sollevando così il pubblico dal noioso compito di annotare riferimenti e di perdersi fra strizzatine d’occhio; insomma Meiko canta sul finale, non  per il gusto della razza cinofila, ma per evocare un immaginario.
Metafora dell’annunciazione, la voce dell’arcangelo Meiko svela il personale Vangelo visionario di Tarantino: un locale lussuoso, fumo, tavoli rotondi, uomini in giacca, pistole…si accende un riflettore e sul palco appare una donna bellissima, impassibile, evanescente. La donna canta per il suo eroe o canta le gesta del suo eroe, di solito- prevedibilemente- un cattivo. Qualsiasi film gangster, d’explotation giapponese che si rispetti ha una scena come questa!
Il tempo di quei titoli di coda ed ecco che, anche in Kill Bill, alla maniera di un classico underground nipponico, una donna sola in un mondo di violenza sale sul palco e sguardo in macchina, inizia a cantare.
E’ proprio questa la banale e straordinaria arte del bricoleur: il gioco del  raddoppio, il film nel film, ma soprattutto l’interscambiabilità dei materiali. Umari Bushi, non è la canzone di coda, non è una citazione colta, Umari Bushi è Kill Bill ed il suo immaginario,  tanto quanto il ballo di John Travolta ed il ritornello surf lo erano per Pulp Fiction.
Mi spiego. Vorrei ricordarvi un paio di film di Seijun Suzuki, recentemente proposti da Fuori Orario. Sto parlando di Elegia della lotta e di Deriva a Tokyo entrambi datati 1966. In Tokyo Nagaremono (Deriva a Tokyo o Vagabondo a Tokyo) il ruolo del palco è portato al parossismo.
Il protagonista di turno, yakuza onorevole, si muove senza senso nella realtà ritmata dal motivo popolare: è “un uomo solo costretto a vagabondare” recita il testo della canzone. Il ritornello torna ossessivo a introduzione di ogni nuova sequenza, a sigillare le gesta inutili dell’eroe e a capovolgerne in definitiva lo stereotipo. Il palco perde qualsiasi valore ornamentale e diviene luogo topico, fulcro e  poetica dell’immagine in movimento. Dalle strutture profonde alla messa in scena, la voce sofferta della cantante sostiene una storia e contemporaneamente ne suggerisce l’interpretazione.
Insomma, va bene, Tarantino cita e saccheggia e la sfida sembrerebbe adatta ad un investigatore privato -e purtroppo la maggior parte della critica funziona così, citare, scoprire la citazione ed ognuno si crogiola nel proprio enciclopedismo- ma se solo per una volta volessimo fissare i materiali utilizzati avremmo accesso ad un'infinità di mondi.
Nel caso poi non aveste davvero idea di cosa sia un film yakuza anni 70, vi basti soffermarvi sulla colonna sonora di un celebre anime giapponese, Lupin III, per comprendere il mood dell' annunciazione!
Per chiudere quest’articolo con un tono sperimentale, vorrei segnalare un disco uscito nel 2002, Dreams dell’ Otomo Yoshihide’s New Jazz Ensemble, che vede la partecipazione straordinaria di un’altra icona del pop giapponese, la signora Jun Togawa. Le tracce Preach ed Eureka contenute in questo disco, sono il frutto di un interessante innesto fra le atmosfere decadenti e malinconiche dei film yakuza, il genere enka e lo sperimentalismo free-jazz. Qualche purista del settore storcerà il naso. Ma se i giapponesi sono i primi a fregarsene dei confini e delle etichette perché non dovremmo farlo noi? In fondo si sta parlando di sprofondare in un immaginario…
Leggendo la presentazione al disco di Yoshihide, curata da John Zorn -il lavoro è prodotto dalla Tzadik- si è ammaliati dalla descrizione di  arrangiamenti tanto inconsueti quanto geniali. Yoshihide stesso sembra perfettamente consapevole del potere evocativo delle proprie guest pop star e ne fa un uso magistrale. Anche in questo caso, ascoltando le love songs di Dreams, si ha l’impressione di assistere ad un continuo trasferimento sintattico fra la sostanza sonora e quella visiva. Preach è indubbiamente la scena di un film, ha la densità dell’immagine ed il ritmo di un immaginario, scandito ancora una volta da una voce straziante e straziata che, aggiungerei, prega in un mondo di violenza.      (foto: Jun Togawa)
Torniamo al cinema. Trenta anni prima che lo facesse Yoshihide, qualcuno aveva già eletto il free jazz a materia filmica privilegiata di questo specifico immaginario. Mi riferisco a  Koiji Wakamatsu ed al suo imprescindibile Estasi degli angeli, parabola anarco politica in veste softcore. La sequenza finale, quella dell’immolazione estrema all’ideale anarchico è un magnifico arrangiamento collettivo di sincopi free-jazz, esplosioni, sangue e melodie d’amore. L’attorcigliamento del sassofonista e la decadenza fisica della cantante sul palco esprimono il destino nero dell’utopia anarcoide in maniera tanto più efficace che i muti agonismi dei protagonisti.

(foto: estasi degli angeli)



Se vi incuriosisce Meiko Kaji - ve ne siete pazzamente innamorati e volete tutte le sue foto e canzoni- potete visitare il sito francese www.meiko-kaji.com, che contiene un’ampia sezione download. Inoltre, se siete rimasti folgorati da Urami Bushi e Flower of carnage, vi consiglio di iniziare a conoscere un po’ meglio quello che prima dell’arrivo delle sonorità occidentali è lo standard del pop giapponese, ossia il genere enka.
Alle produzioni cinematografiche del sol levante è invece dedicato un ottimo sito in lingua inglese: www.midnighteye.com




Altrimenti potete sempre tornare al cinema e provare a godervi ancora una volta la melodia dei titoli di coda di Kill Bill 2, una melodia che, riprendendo il confronto con Suzuki, non chiude il film, ma piuttosto lo dischiude e rivela.

















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:: Saburo Teshigawara E La Physics Dance (by IOIOI, 2004)

Scritto da Kitty (IOIOI/Cristiana)nel 2004.
Kathodik - Transasia 3


Saburo Teshigawara E La Physics Dance.








di Kittychan
kfraticelli@hotmail.com




E con l’estate l’oriente si fa più prossimo, fino a bagnare di tenera luce del mattino la terra della nostra redazione.
Domenica 25 Luglio al Teatro Rossini di Civitanova Marche per la rassegna Civitanova Danza 2004 si è esibito il danzatore giapponese Saburo Teshigawara e la Compagnia Karas in Green. Chi è Saburo Teshigawara-sama?  (foto 1: Saburo Teshigawara)
Saburo Teshigawara segna l’ingresso della danza contemporanea in Giappone a partire dalla metà degli anni 80. Fino ad allora il mondo della danza era stato performato, per offerta e sensibilità, dall’avvento del butoh , di cui si è parlato abbondantemente in Transasia 2. All’alba degli anni 80, il radicalismo butoh rappresentava un punto di non ritorno, uno stallo, la frontiera interdetta a qualsiasi altra possibilità di sperimentazione corporea che si appoggiasse a stili “tradizionali” (orientali ed occidentali indifferentemente). Saburo Teshigawara risolve l’impasse in maniera tanto evidente quanto azzardata: fra old-style e no-style, esiste una terza via, quella del new style. Attivo dal 1981, forma la sua compagnia Karas assieme a Kei Miyata –  personaggio chiave, a cui spero di dedicare al più presto una monografia!- nel 1985. Un anno dopo viene segnalato dalla critica mondiale e  vince il premio Rencontres Choreographique Internationales di Seine-Saint-Denis. Inizia a esibirsi in Europa e nel Nord America, raccogliendo il favore del pubblico e suscitando l’entusiasmo della critica. Nel 1994-95 viene invitato, in qualità di coreografo, da William Forsythe (Forsythe’s Ballet Frankfurt).
L’ampio seguito di critica e pubblico a livello internazionale segna una svolta significativa per la danza giapponese. Nel passato, “esportare” danza giapponese significava inevitabilmente teatro Kabuki o Noh. Per quanto riguarda il butoh, come si è detto, l’attrazione a livello internazionale si giocava  per lo più sul piano dell’esoticismo o di curiosità antropologica. Al contrario, il new style Teshigawara irrompe nella scena contemporanea internazionale accanto a nomi come Jan Fabre.
Naturalmente c’è molto Giappone nella sua danza, ma come vibrazione, fantasma, attitudine o cellula impazzita, piuttosto che marca identitaria.
Teshigawara nasce come danzatore classico ed artista visivo. Lavora con materiali corruttibili, sintetici, tossici, attorno all’idea della modernità. Ero un artista visivo e non ero soddisfatto. Desideravo avere un contatto diretto con la materia, con il vivente. Ed il mio corpo poteva essere questa materia (Saburo Teshigawara)Inizia a sperimentare privatamente, in montagna, dove si seppelliva per otto ore in posizione eretta, cimentandosi in performance senza pubblico. L’artista senza pubblico si rivolge ad un vocabolario classico. Era come se stessimo imparando un nuovo linguaggio per creare il nostro proprio linguaggio. Mi ci sono voluti dieci anni prima di trovare finalmente il mio proprio linguaggio (idem).A prima vista le sue coreografie sembrerebbero riconducibili alla pantomima. Ma, mentre la pantomima imita qualcosa di concreto attraverso il gesto, l’aspetto mimetico della danza di Teshigawara non è riconducibile ad un semplice rapporto di imitazione. Piuttosto si tratta dell’essenza del mimo, da cui viene distillato la sola proprietà danza. Senza dubbio, di “distillazione” è bene parlare nel caso di Teshigawara: qualcosa che ha che fare con sostanze, liquidi volatili, vapori, profumi. Mi spiego.
La seconda parte di Green, si apre con Kei Myata distesa sul verde. Si alza, avanza verso il pubblico, si ferma, torna a stendersi. Contemporaneamente entra un ballerino che siede in posizione zen. Si alza in piedi, sollevando il ginocchio sinistro prima del destro. Sguaina una spada invisibile, esegue un kata, si siede nuovamente a terra, di nuovo partendo dalla gamba sinistra. Ripete la sequenza. Il palco si affolla di altri personaggi, animali, una bambina, un maniaco, un lottatore sumo…La danza si fa più convulsa, sempre comunque stilizzata, mai eccessiva. 
Chiude la sequenza ancora il samurai. Ripete il medesimo kata a velocità raddoppiata, ma non vediamo più né spada, né samurai: solo l’incisione area del gesto, quasi braccia e piedi non fossero che sottili provvisori pennelli. Del gesto, della velocità, del senso, del ruolo del samurai non rimane che una calma e trasparente tensione plastica. (foto 2: Green) 
Verrebbe in mente Kairo di Kyoshi Kurosawa: fra l’essere vivente ed il fantasma esiste un luogo intermedio, uno spazio di trapasso reso dal torbido liquido nero che penetra il muro. Un' impronta al contrario, in rapporto di somiglianza progressivo verso ciò che non c’è – il riassorbimento del liquido, l’assenza, come massimo effetto di presenza.
Un giovane critico giapponese, Keisuke Sakurai, riferendosi proprio a questa abilità di distillazione propone un coraggioso confronto fra il corpo del Teatro Noh e l’estetica coreografica di Teshigawara. Nel Teatro Noh, il corpo è presentato – e non rappresentato-  come un ricettacolo (in giapponese il corpo è karada o involucro vuoto, oppure utsubo, cavità, oppure utsusemi la pelle di una cicala).
Una volta fissata nei nostri occhi la materialità e l’esistenza di questo corpo, un solo movimento viene fatto, con estrema lentezza: scendono le maniche. E’ questo unico movimento, che attraversa il corpo solidificato e lo spazio circostante, a rendere visibile “il passaggio dell’aria”. O meglio, è solo il movimento dell’aria nello spazio a svelare la presenza di una fanciulla divina - l’oscillazione del velo di piume - nel corpo dell’attore Noh.
Dal momento che il corpo è vuoto, negativo, è strutturalmente possibile accogliere lo spirito.
In questo senso Sakurai legge il riferimento pantomimico, esente da un urgenza realistica,  in Teshigawara.. Teshigawara è partito dalla pantomima. Da qui crea un’espressione completamente nuova, vicina al corpo del Noh, che è quanto di più lontano possa esserci dal realismo. Presupporre la sola materialità del corpo ed il nulla attorno a te, significa che ogni volta che il corpo si muove, facendo vibrare l’aria, è l’aria stessa a rendersi visibile. (foto 3: Maschera Noh)
Teshigawara parla di “danza fisica” o "danzare l’aria”. Mi interessa il tempo, ma senza orologio. Non puoi trattenere una colonna di fumo. Come il tempo, è già passata. Ma puoi farlo...in danza (idem)
La parte centrale del primo tempo di Green è davvero dedicata all’emergenza della fisicità dell’aria e del tempo. Un quadrato di luce proiettato su terreno verde: quattro pilastri ai lati, tre danzatrici al centro disposte secondo i vertici di un triangolo, due danzatori in ombra sulla diagonale del quadrato di luce; infine un uomo al buio, appoggiato - mani e testa - al pilastro anteriore destro, fa vibrare la propria voce su un tappeto di risonanze drones.
Per dieci minuti, ma per l’effetto di senso si potrebbe dire in eterno, le tre danzatrici eseguono la stessa sequenza, fatta di gesti minimi: piedi ben piantati a terra, roteano busto e bacino, incrociano ed oscillano le braccia morbide ed esili, secondo semplici logiche simmetriche, sguardo vitreo puntato verso la platea.
Lentamente assistiamo al processo di transizione della materialità: i corpi delle danzatrici si assottigliano, lo spazio si apre ad un concerto di linee, ad una coreografia eidetica e plastica, lasciando che sia la materialità del supporto, testura o tela,  ad emergere.
E’ l’aria ed il vapore della luce ciò che vediamo muoversi concretamente.
Dieci minuti che testimoniano dell’arte visiva di Teshigawara in maniera radicale: il palco, i costumi, la luce, concorrono a produrre una qualità dello spazio straordinaria. A questo proposito, è un peccato che le produzioni video di Teshigawara siano poco diffuse; in T-CITY cortometraggio del 1993, i corpi delle danzatrici sono stilizzati, essenziali, a bassissima densità figurativa, schiacciati in un mondo biplanare di contrasti cromatici funzionali al sollevarsi, ogni volta paradossale e semplice, della terza dimensione…la profondità.
Lavoro sulla qualità, non solo sulla qualità del movimento, ma anche sulla qualità dell’esistenza, la qualità dello spazio, la qualità del corpo. Nella danza è possibile creare le qualità più diversificate. Sono solo curioso, curioso di vedere, di trovare, voglio trovare momenti freschi, fenomeni freschi (idem).Dunque, quali operazioni prevede il laboratorio di essenze di Teshigawara?
Una studentessa racconta che la prima mezz’ora di un workshop del maestro è dedicata a sentire il contatto con il terreno, ossia prendere coscienza della pianta del piede, l’unico effettivo perno fisico con il mondo in standing position. Da qui iniziare a permeare del proprio respiro ogni parte del corpo: la danza coinvolge i sensi e la coscienza interna di una persona. E’ interessante scoprire i nostri reciproci sensi permeare l’uno nell’altro e funzionare al tempo stesso come singolo, diversificarli, raddoppiarne la dimensione…(idem).Il respiro è la condizione sine-qua-non del risveglio del danzatore. Ogni cellula del nostro corpo è intrisa di cultura e di schemi: danzare significa primariamente liberarsi degli schemi, decostruirli fino all’apparizione di un’esistenza “unorganized and weightless
Il movimento della danza passa per il respiro e la coscienza di una dimensione sinestesica. Non è il movimento locomotorio ciò che fa la danza, ma piuttosto il movimento del “melting sense”: se non apriamo i sensi al movimento finiamo per ripetere e ricreare le stesse coseLa partecipazione in Luminous (2001), del danzatore cieco Stuart Jackson, rende conto proprio di questa investigazione raffinata dell’esperienza propriocettiva. Teshigawara educa Stuart al movimento; una volta portata la coscienza in ogni singola cellula del proprio corpo il ragazzo cieco inizia ad appropriarsi totalmente dello spazio motorio di un mondo privo di luce. Un mondo interdetto a noi vedenti, dove, al contrario, Stuart riesce a saltare, a correre velocemente, a piroettare senza incidenti.
Ciò mi fece pensare: ah, allora noi viviamo in questa maniera! In altre parole, dovremmo usare gli stessi sensi che egli usa (ad eccezione della vista). Stuart danza senza limitare il senso della direzione. Trascende i limiti, gli angoli dei corpi e le velocità, che noi abbiamo ristretto. Nel buio più totale ho provato a danzare come Stuart. Ma non ci sono riuscito. Perdevo l’equilibrio. Non sapevo danzare al buio, ma Stuart poteva  (www.insite-tokyo.com/interview/) Green si chiude magistralmente con l’assolo di Teshigawara su musiche di Mozart.
Il corpo è rilassato, la mente calma, i gesti minimi, pieni e morbidi al tempo stesso. Il contatto con il suolo raramente viene interrotto, tutto si gioca alla stesso livello, manipolando le materialità dell’intorno: la luce e le note stesse acquistano materialità, il corpo di Teshigawara si svuota e si riempie a ritmo con lo spazio. Un effetto di senso che raramente la danza riesce a veicolare e che piuttosto ritroviamo nei movimenti del taichi chuan o del ki-aikido.
Ma attenzione. Non c’è davvero nulla di esotico nelle coreografie di Teshigawara. Egli spazia indifferentemente fra sincopi break, passi di ballet, soluzioni Horton o Lemon: artista post moderno, attraversa gli stili per disfarsene; distilla, depura, sottrae, gli stilemi della danza moderna, della quotidianità, del gesto per prelevarne la qualità (e tornerei all’idea del profumo per non confonderci con categorie aristoteliche o platoniche assolutamente fuori luogo!)
I commentatori occidentali parlano di un Teshigawara super esteta, ma è davvero difficile sganciare la proposta del Maestro dai riferimenti culturali della filosofia orientale, sia pure ridotta a presenza fantasmatica di un’antica attitudine fenomenologica. Da questo punto di vista, darei credito ad una critica dellAsahi Snibun, secondo la quale: “si potrebbe dire che l’ideale dell’estetica giapponese si trovi qui. Come potrebbe essere possibile una tale precisione, un simile controllo? Non è più a livello tecnico che stiamo parlando. La tranquillità della serenità di mente e corpo”
Mi sembra interessante d’altra parte la contrapposizione fra l’effetto di senso derivante da una distaccata serenità e quello di una estetica fredda o gelida di cui parlano, al contrario, diversi critici.
Gli spettacoli di Teshigawara non sono mai coinvolgenti dal punto di vista puramente coreografico. Piuttosto, il calore, la potenza, la disarmante fragilità della condizione umana emerge come una forza impersonale, tanto irruente quanto più il gesto si stilizza, si fa formante plastico, si fonde con lo spazio, con la concretezza di un’imprescindibile profondità esistenziale sempre in divenire.
Una ricerca esattamente opposta è quella invece proposta dal gruppo di teatrodanza di Kyoto Dumb Type, esibitisi a giugno 2003 in occasione della Biennale di Venezia. (foto 4: Dumb Type)
Dumb Type, un collettivo di artisti provenienti da diverse discipline – arti visive, musica, architettura, danza moderna, butoh -  condivide con Teshigawara la stessa tensione per un’arte fondamentalmente sincretica e sinestesica, volta ai fenomeni contemporanei.
Tuttavia, in questo caso, la complessità e la perfezione formale introducono un mondo dove i tratti passionali, la precarietà, lo spessore carnale del corpo vengono continuamente risemantizzati in chiave tecnologica. Lo spazio narrativo delle loro performance contempla più livelli, soluzioni ad altissima tecnologia, fughe temporali di logica onirica, assurdi agonismi del quotidiano. L’umanità non è che uno stile tecnologico.
Durante la performance sei coinvolto, eccitato. Esci dal teatro e sei agghiacciato. Nulla a che vedere con la calda sensazione di conforto e sorpresa impressa dalle “fredde” coreografie di Teshigawara.
Chiudo l’articolo con i Dumb Type non a caso. Il 30 Luglio a Fano per la rassegna Il Violino E La Selce si esibirà un componente storico dei Dumb Type, il musicista - terrorista delle frequenze off limits! Ryoji Ikeda (foto 5: Ryoji Ikeda).  Imperdibile



















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:: Shohei Imamura (by IOIOI, 2006)

Articolo scritto nel 2006 (?); in collaborazione con Roberto Donati per la sezione "schede tecniche"
TRANSASIA 4 su www.kathodik.it
Kathodik - Transasia 4


Speciale Cinema. Primo Capitolo: Shohei Imamura




di Kittychan e Roberto Donati




Fa caldo. Perché non una retrospettiva sui “film umidi”? Nasce così (più o meno) la collaborazione fra Kittychan e Roberto Donati, autorevole firma di Centraldocinema, nonché film-maker e critico cinematografico  - di prossima pubblicazione il suo libro dedicato al cinema di Sergio Leone - che ci ha gentilmente inviato delle curatissime schede tecniche (Arigatooooooo !)
Per farla breve, finalmente Transasia diventa collettivo.
Iniziamo la collaborazione di comune accordo con un esponente della cosiddetta Nuberu Bagu giapponese tuttora all’attivo: Shohei Imamura. 
 (foto1: calligrafia)

 SHOHEI IMAMURA: UMORI, UMIDITA’, UMIFICAZIONE


di Kittychan

Ho sempre voluto farmi delle domande sui Giapponesi, perché è il solo popolo che sono in grado di descrivere…Sono sorpreso dell’attenzione che ricevo in occidente. Non credo davvero che la gente possa capire ciò di cui sto parlando” (Shohei Imamura)

Non so se avete avuto l’occasione di vedere al cinema quel memoriale collettivo chiamato 11’09’’01 . L’ultimo corto era curiosamente ambientato in Giappone alla fine della seconda guerra mondiale e raccontava la storia di un uomo serpente. Vi sarete allora fatti un’idea di quello che significa comprendere ed amare in occidente un regista come Shohei Imamura.
Se siete dei cinefili invece a quest’ora starete sorridendo: quale misero esempio è questo per un autore del calibro di Imamura,  oggetto di attenti studi universitari, nonché eletto protagonista e vincitore di Festivals internazionali (nel 1998 l’ultima volta a Cannes)


Fango, insetti, ossa, cibo, serpenti, uova, nascite, fetore, superstizioni, disoccupati, prostitute ed ancora di nuovo, fango, pozzi, rettili, anfibi, fame, morte.
E’ il cinema del popolo giapponese o del Popolo?  Siamo davvero immuni ai bassifondi umidi ed umorali dell’esistenza?
 (foto 2: Shohei Imamura)

Nuberu Bagu, traslitterazione in katakana di Nouvelle Vague, è il termine con cui si designa la generazione di cineasti emersa fra gli anni 50 e 60 in Giappone. Il gruppo includeva  i “giovani in collera” della major Shochiku: Nagisa Oshima, Masahiro Shinoda e Yoshihide Yoshida essenzialmente.


Il modello di riferimento di questi nuovi cineasti non era né il cinema giapponese classico né tantomeno quello hollywoodiano, bensì il nuovo cinema europeo, Resnais, Godard o Antonioni.
Dei vecchi maestri - i protagonisti della prima ondata giapponese – come Ozu o Mizuguchi criticavano la rigidità formale e l’approccio borghese responsabile di immutabili ricette sul melodramma e sulla commedia sentimentale.
Nel 1960 esce “Racconti Crudeli della giovinezza” di Nagisa Oshima ed è subito scandalo.
Oshima facendo propria la rivolta inaugurata dal movimento cinematografico e letterario dei “taiyozoko” – i fratelli Ishihara – mette in scena il cupo ritratto di una generazione perduta e corrotta, un ritratto animato da una regia acida e innervata da assoluta libertà formale.
Dalla parte della Nikkatsu è il giovane Imamura a rompere con le convenzioni narrative inaugurando una potente miscela di entomologia umana e veggenza neorealista:
La realtà è fatta di quei piccoli reliquari, la superstizione e l’irrazionalità che pervade la coscienza giapponese sotto la maschera dei completi da business-man e dell’avanzamento tecnologico  (Shohei Imamura, 1977)
Interessanto alla correlazione fra parte bassa dell’animo umano e parte bassa della società, Imamura documenta il vero tessuto sociale del Giappone del dopo guerra: i suoi eroi anti-eroi sono le prostitute, i killers, contadini, ladri, pornografi della classe media.


Tuttavia è difficile parlare di film denuncia o di taglio populista; l’occhio è piuttosto quello dell’antropologo e dell’etnologo (“I Pornografi” film del 1966 ha per sottotitolo Introduzione all’Antropologia) in un faticoso equilibrio fra sospensione ermeneutica e partecipazione emotiva.
Un’urgenza che spesso lo porterà a privilegiare la forma documentaria e sarà solo sul finire degli anni 70, quando l’azione dell’etnologo rischierà di farsi fin troppo partecipante, che il regista, da buon  scienziato, si volgerà definitivamente alla fiction:
Iniziai a chiedermi se il documentario fosse davvero il mezzo migliore per rappresentare questa materia. Capii che la presenza della camera poteva materialmente cambiare la vita della gente. Avevo il diritto di provocare tali cambiamenti? Non stavo forse impersonando il ruolo di Dio nel cercare di controllare le vite degli altri? Non sono un umanista sentimentale, ma pensieri come questo mi spaventarono e mi resero lucidamente consapevole dei limiti del genere documentario
(foto 3: scena da 'Il Profondo Desiderio Degli Dei')

La potenza visionaria di Imamura si gioca tutta qui; come una lacerazione, una fioritura nello scarto fra sguardo scientifico e vividezza narrativa. In questa zona neutra c’è spazio per la massima intensità passionale, per un coinvolgimento non artificioso, per l’invasione spietata ed essenziale dell’emozione, quasi fosse un rigonfiamento dello schermo o una voragine da allucinazione collettiva.
Sono paradossalmente il distacco e la lucidità a rendere possibile l’emergere della passione e che sia veicolata dall’amore o da intollerabile violenza poco importa; Imamura è semplicemente interessato alla “nuda verità”.
Un cinema costruito sul continuum di umidità,  stati umorali e processi di umificazione: quando le sostanze organiche diventano humus, cioè semplice terra, o meglio  condizione non spettacolare per nascite inattese.


Imamura si è detto, guarda in basso, guarda dal basso, esplora la terra umida. La potenza filmica stessa dipende dalla stessa logica generativa dell’elemento passionale. E’ un’escrescenza spontanea e temporanea della terra, l'imprevisto ciclico di un mondo spietato: la vita torna al fango per generare altra vita (il neonato morto nel campo in La Ballata di Narayama è concime per altra vita)
(foto 4: 'La Ballata Di Narayama')

Da qui l’indifferenza, dal sapore animista, per il soggetto (protagonisti sono anche i batteri del Dott. Akagi, il vento o l'acqua) ed il privilegio concesso agli organismi imperfetti – l’uomo in primis – a raccontare la lotta alla sopravvivenza e a rilanciare il pietrificante Valore dietro qualsiasi altro valore: l’esistenza.








Filmografia di Shohei Imamura:

STOLEN DESIRE (NUSUMARET YOKUJO) 1958
NISHI GINZA STATION (NISHI GINZA EKI-MAE) 1958
ENDLESS DESIRE (HATESHI NAKI YOKUBO) 1958
MY SECOND BROTHER (NIANCHAN) 1959


PIGS AND BATTLESHIP (BUTA TO GUNKAN)1961
THE INSECT WOMAN (NIPPON KONCHUKI) 1963
INTENTIONS OF MURDER (UNHOLY DESIRE, AKI SATSUI) 1964
THE PORNOGRAPHERS: INTRODUCTION TO ANTHROPOLOGY (JINRUIGAKU NYUMON) 1966
A MAN VANISHES (NINGEN JOHATSU) 1967
THE PROFOUND DESIRE OF THE GODS (KURAGEJIMA: TALES FROM A SOUTHERN ISLAND, KAMIGAMI NO FUAKI YOKUBO) 1968
A HISTORY OF POSTWAR JAPAN AS TOLD BY A BAR HOSTESS (NIPPON SENGO SHI: MADAMU OMBORO NO SEIKATSU) 1970
KARAYUKI – SAN , THE MAKING OF A PROSTITUTE (KARAYUKI – SAN) 1975
VENGEANCE IS MINE (FUKUSHU SURU WA WARE NI ARI) 1979


EIJANKAIKA 1981
THE BALLAD OF NARAYAMA (NARAYAMA – BUSHI KO) 1983
ZEGEN (THE PIMP, A PANDER) 1987                                                                                                                                       
BLACK RAIN (KUROI AME) 1989
THE EEL (UNAGI) 1997
DR. AKAGI (KANZO SENSEI) 1998
WARM WATER UNDER A RED BRIDGE (AKAI HSHI NO SHITA NO NURUI MIZU) 2001
11’09”01 (Japan segment – omnibus film) 2002




RECENSIONI E SCHEDE TECNICHE
a cura di Roberto Donati

ACQUA TIEPIDA SOTTO UN PONTE ROSSO  (Akai hashi no shita no narui mizu) GIAP-FR 2001
(foto 5: 'Acqua Tiepida Sotto Un Ponte Rosso')



di Shohei Imamura con Koji Yakusho, Misa Shimizu, Mitsuko Baisho, Mansaku Fuwa, Kazuo Kitamura, Hijiri Kojima. ° Animato da intenzioni cleptomani, un disoccupato lascia la famiglia e si reca sulla penisola di Noto, dove però si innamora di una donna che a ogni amplesso libera grandi quantità dal proprio corpo, attirando i pesci del mare. Deciderà di restare, ma la particolarità – e con essa l’amore – inizia a diminuire. Accostando modernità e tradizione come di consueto, Imamura costruisce attorno a due personaggi principali e a una serie di individui bizzarri e fin troppo simpatici una favola sul bisogno d’amore e, di conseguenza, di sesso, antidoti alle meschinerie della vita reale capaci di accendere sane passioni e di risvegliare bellezze sopite (si noti la solenne freschezza dell’ultima immagine con l’arcobaleno). Certo, c’è molta scaltrezza commerciale dietro a immagine spurie e apparentemente incontaminate, ma la qualità di Imamura è anche sempre quella di riuscire a combinare slanci poetici e banalità d’autore. Il film, uno dei pochi del regista a essere arrivato in Italia, è anche conosciuto col titolo più letterale L’acqua è tiepida sotto il ponte rosso.      BN/COL        COMM         119’        * * ½

BLACK RAIN  (Kuroi ame) GIAP 1988


(foto 6: 'Black Rain')

di Shohei Imamura con Yoshiko Tanaka, Kazuo Kitamura, Etsuko Ichihara, Shoici Ozawa, Norihei Miki. ° Il 6 agosto 1945 una bomba atomica cade su Hiroshima: nelle rovine della città e fra i morti, i signori Shizuma e la nipote Yasuko cercano la via di fuga, ma la giovane è colpita dalla radioattiva pioggia nera che cade dal cielo. Cinque anni dopo, Yasuko vive ancora cogli zii, in un villaggio di superstiti poco fuori la città. E siccome la gente continua a morire per le radiazioni indirette, gli zii si preoccupano di trovare un marito a Yasuko prima che possa essere troppo tardi. Prima di Kurosawa, Imamura (anche cosceneggiatore) si confronta di petto con il peggior incubo della storia giapponese, quel fungo atomico che apparve nel cielo e che determinò la resa incondizionata di un intero paese e di un intero popolo: così il regista, come ossessionato dal quel tragico evento, ci ritorna spesso tramite flashback angosciosissimi commentati da una musica luttuosa e critica. E anche se, a dire il vero, c’è del sensazionalismo nelle immagini (in sintonia con lo stile e con il metodo di Imamura), è proprio l’inizio nel “lazzaretto” di Hiroshima – indimenticabile l’uomo che prima di morire cadendo da una finestra grida “dov’è Hiroshima? È scomparsa” – la parte più riuscita e toccante, e non tanto la successiva descrizione di una vita tranquilla che è costretta a confrontarsi nuovamente – simbologia animale, visioni allucinate e danni corporali – con gli orrori fisici e morali di quel giorno. Anche perché, per essere del 1988, il film è vecchiotto sia in quanto a stile che in quanto a ideologia: ma paradossalmente, col senno di poi, riesce ad anticipare il “contrappasso” dell’orrore delle immagini (amatoriali e non) che hanno mostrato al mondo intero la tragedia americana dell’11 settembre 2001 (e forse non è un caso, allora, che un episodio del film collettivo dedicato a quell’evento sia firmato proprio dallo stesso Imamura). Dopo questo film, inedito in Italia, il regista cadde in un silenzio forzato per otto anni.        BN         DRAMM          123’         * * *


THE EEL  (Unagi) GIAP 1996


(foto 7: 'The Eel')

di Shohei Imamura con Koji Yakusho, Misa Shimizu, Mitsuko Baisho, Akira Emoto, Shoichi Ozawa. ° Estate 1988, mentre la Corea si prepara ad accogliere le Olimpiadi a Seul: avvertito da una misteriosa lettera, Yamashita scopre la moglie a letto con un amante, e la uccide per poi costituirsi. Dopo otto anni di prigione (tanti quanti quelli di autosilenzio creativo che Imamura si impose dopo Black rain), torna a vivere e a lavorare, come barbiere, in un piccolo villaggio di pescatori; salva l’aspirante suicida Keiko, somigliante alla moglie, a cui poi però non vuole legarsi, ma trova in lei un’altra compagnia, potendosi così permettere di dare la libertà all’anguilla (eel) con cui dialogava fin dai giorni del carcere. Dopo otto anni di silenzio, dunque, Imamura torna alla regia sceneggiando col figlio Daisuke (che usa lo pseudonimo Daisuke Tengan) un racconto bucolico e leggiadro sulle nuove possibilità che la vita offre costantemente e intrecciando, in un ambiente genuino e ingenuo quasi fuori dalla Storia, il destino di due solitudini che esigono pietà e rispetto. La metafora dell’anguilla è scopertamente semplice, così come facilmente poetica è l’intera opera, il ritmo è placido e surreale (tanto quanto il ragazzo che crede agli Ufo), i valori buoni sono esplicitati senza tanti complimenti e il finale è amarognolo e ambiguo solo in parte: eppure, nonostante la poesia rischi sovente l’artificio, il film funziona, tanto nelle scene crude (l’omicidio della moglie, con il sangue che sporca addirittura l’occhio neutro della cinepresa, rendendolo partecipe – insieme allo spettatore – dell’assurdità di tanta violenza) quanto in quelle soavi tese a dimostrare che il lavoratore indefesso e accanito pescatore Yamashita è il vero “alieno” di una società ritualizzata e sempre pronta a condannare senza giudicare. Un tantino esagerata, comunque, la Palma d’oro al 50° festival di Cannes (cosa che, comunque, non ha reso il film visibile anche in Italia), ex aequo con Il sapore della ciliegia di Kiarostami.      DRAMM       117’       * * *




IL PROFONDO DESIDERIO DEGLI DEI  (Kamigami no Fukaki Yokubo) GIAP 1968
(foto 8: 'Il Profondo Desiderio Degli Dei')

di Shohei Imamura con Rentaro Mikuni, Choichiro Kawarazaki, Kazuo Kitamura, Hideko Okiyama, Yoshi Kato, Yasuko Matsui, Izumi Hara. ° “Con Il profondo desiderio degli dei superstizioni e modernità, panteismo e passioni umane si sviluppano visceralmente nell'ambiente di un'immaginaria isola a sud-ovest del Giappone: a Kurage gli abitanti sono ancora primitivi, la leggenda della creazione dell'isola da parte degli dei è ancora viva e vissuta; specie da una famiglia 'maledetta', che spende la propria vita scavando un'enorme buca per far rientrare nelle viscere della terra un grande blocco di pietra, simbolo concreto del disappunto divino per le scelleratezze degli uomini. In parallelo cresce la vicenda dello sviluppo tecnologico dell'isola (legata ad una raffineria di zucchero), ma pure l'ingegnere inviato per i lavori resta avviluppato nella rete di superstizione e sensualità del luogo. Forte di una potenza visuale inusitata Il profondo desiderio degli dei si chiude con un rito omicida di straordinario ritmo e suggestione: una vela rossa che naviga senza più controllo nel Mar della Cina coniuga esemplarmente il dramma della vita umana e la potenza del mito arcaico”. Inedito in Italia e recuperato (in originale con sottotitoli) dal solito Ghezzi a Fuori orario.         DRAMM          172’         * * *




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:: Speciale FUTURE FILM FESTIVAL 2005 (IOIOI, 2005)

articolo scritto da Kitty (ossia, IOIOI, ossia Cristiana)nel 2005 per la rubrica da lei diretta "Transasia" -  www.kathodik.it.
Reportage dal Future Film Festival 2005, Bologna.
Kathodik - Transasia Special Future Film Festival 2005 Bis


Curiosità Ancora Dal FFF 2005!!!







Di Kitty Chan  

Il FUTURE FILM FESTIVAL si apre quest’anno con un evento straordinario: la presentazione di alcuni corti d’animazione giapponese degli anni ‘20 sonorizzati in tempo reale da Ikue Mori.
Le animazioni d’epoca trattano per lo più di leggende popolari e racconti shinto. Gli autori sono diversi, da Yasuji Murata a Noburou Oofuji, nomi che al di là degli ambienti della critica non suonano troppo familiari agli amanti degli anime giapponesi. Eppure è da qui che tutto ha inizio. L’equilibrio fra sperimentazione e standard di produzione è sorprendente. In particolare Murata – “Le olimpiadi degli animali” o “La scimmia va a pesca”- sembra anticipare tutti quelli che saranno gli ingredienti di genere negli anni a venire. I suoi personaggi, tratti da un’evidente repertorio animista, sono per lo più animali – scimmie, maiali, tartarughe – fortemente caratterizzati in maniera caricaturale e con uno stile iconografico molto vicino al successivo Tezuka.Le storie, anche quando si appoggiano a leggende o a detti popolari, mostrano già quel taglio fra l’ironico e l’onirico che è oggi notoriamente uno fra gli attributi strutturali del manga classico. L’esigenza sperimentale varia: dal montaggio narrativo, con un sapiente utilizzo di flash back, inserti onirici o sequenze ad incasso a suggerire una profondità temporale, alle formule sincretiche, fra stile astratto e figurativo – in particolare il bellissimo “La lepre e la tartaruga” di Yamamoto Tosanae. Infine colpisce la delicatezza delle opere, per forma e contenuto. Una delicatezza sicuramente resa più suggestiva dal tempo e da un supporto sempre sul punto di cedere (più volte la proiezione è stata interrotta per i salti di pellicola). In sala Ikue Mori, sotto lo schermo, di lato, si cimenta in colonne sonore estemporanee, munita del solito laptop e del proprio inconfondibile gusto. Frammenti di suono, tocchi percussivi, brevi manipolazioni elettroniche, piogge di microwave, in stile Mori. Risultato spettacolare.
Nulla a che vedere con un rapporto di aggancio referenziale al visivo. Il suono ritarda o anticipa gli sviluppi narrativi, oppure suggerisce un particolare, senza mai eccedere in caratterizzazione, senza mai retrocedere a suono d’ambiente.





La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou, Cina/Hong Kong, 2004
Oramai uscito nelle sale da qualche mese, non ha bisogno di presentazioni. Un accenno alla trama ed un personalissimo commento.
Xia-Mei danzatrice cieca della casa dei « fiori » viene sospettata di appartenere al clan clandestino dei pugnali volanti, minaccia e timore dell’imperatore della Cina nell’anno 859 d.c. La ragazza viene arrestata e sottoposta a tortura allo scopo di ottenere quante più informazioni possibili sull’organizzazione interna del clan. Realizzata l’inutilità degli interrogatori i comandanti della polizia decidono di attuare un subdolo piano: il capitano Jin travestito da cavaliere errante – Vento - l’aiuterà ad evadere dalla prigione e a ricongiungersi con gli altri componenti del clan. Nel frattempo il capitano Leo li seguirà di nascosto con la speranza di scoprire il covo segreto del capo clan. Durante il viaggio attraverso foreste di bambù e distese di fiori selvaggi, la danzatrice e il falso cavaliere si innamoreranno: un amore che nonostante i travestimenti, le menzogne e gli agguati sarà destinato a manifestarsi…
Gli elementi di genere ci sono tutti: la cospirazione, le arti marziali, lo spionaggio, il sembrare piuttosto che l’essere, il regime della menzogna al servizio della verità. Qualche critico vi ha voluto leggere un omaggio al capolavoro di King Hu “A touch of zen”.
Sì e no. Se dal punto di vista formale ed estetico i due film condividono lo stesso gusto per il pittorico e l’astratto, stesso non può dirsi per l’impianto narrativo e l’intreccio passionale. Là dove King Hu resta fedele alla logica cinese dell’influenza indiretta fino a fare della regia stessa una potente operazione di controspionaggio, Zhang Yimou  cede all’esplicito, alla manifestazione, alla dichiarazione. Risultato: i più alti valori dell’etica cinese declinano in una penosa caricatura, le sequenze di combattimento – private del “pensiero cinese”- si fanno notare solo per l’aspetto spettacolare ed anche le soluzioni di genere più convenzionali, il fantastico su tutto, perdono di efficacia finendo per restituire uno sgradevole effetto di artificiosità. Ma a  quale scopo tradire il valore dell’implicito, in un film espressamente dedicato alla tradizione ? A quanto pare l’autore ha voluto focalizzarsi sulla storia d’amore dei due protagonisti. L’amore esplode e  porta a svelamento il silenzioso passaggio della logica indiretta.  Ed “esplodere” significa inevitabilmente turbare l’equilibrio…ossia provocare una tragedia.
Eppure anche qui le cose non tornano. Che i due protagonisti si siano davvero innamorati è un evento quasi imposto. Per tutta la durata del film i sentimenti sono messi a tacere e l’amore  non è che il banale effetto di senso di una faticosa costruzione romantica. Edulcorato fino all’esasperazione – anche visivamente, vedi i ritocchi in digitale – l’ultima fatica di Zhang Yimou desta il sospetto che la volontà di una produzione esportabile  stavolta fosse più forte di qualsiasi motivazione creativa.




Paranoia Agent (Mousou Dairinin, di Satoshi Kon, Giappone 2004)


Satoshi Kon conferma il proprio talento con Paranoia Agent. Chi ha avuto modo di apprezzarlo per Perfect Blue e Tokyo Godfather non dovrà assolutamente mancare l’appuntamento con quest’ ultima prova.
La prima puntata si sviluppa attorno alla storia di una designer schiva e sognatrice alle prese con un l’ardua impresa di progettare un personaggio che raggiunga la fama del precedente. “Fortunamente”  proprio allo scadere della consegna sarà vittima dell’aggressione di un misterioso ragazzino in roller blade e mazza da baseball. I seguenti episodi vedranno altre vittime della medesima aggressione, tutte legate da un indiscernibile ed imperscrutabile filo conduttore.
Grafica accattivante, colonna sonora raffinata, montaggio articolato ed un intreccio per nulla ovvio sono gli ingredienti che rendono quest’opera un gioiello dell’animazione seriale. Per il momento l’impressione è che Kon abbia saputo tradurre in tavole animate la formula che fu di Lynch per Twin Peaks: l’ombra perturbante dell’esistenza nel quotidiano.




Appleseed di Shinji Aramaki, Giappone 2004

Anno 2131. la guerriera Deunan Knute viene rapita e condotta ad Olympus metropoli votata al mantenimento della pace per metà abitata da Bioridi, degli  androidi generati per clonazione, del tutto simili agli umani ma privi della capacità di provare emozioni. Ad Olympus Deunan incontrerà l’ex compagno cyborg Briaeros e si troverà coinvolta in intricate e sanguinolente cospirazioni. Appleseed di certo non si fa apprezzare per l’aspetto narrativo o scenografico:  gli ambienti, i cyborg, le macchine, tutto risponde ad una convenzione di genere ben riconoscibile- fantascienza o cyberpunk. Nessuna caratterizzazione particolare dei personaggi, nessuno scarto dalla sintassi standard di un anime d’azione.
Lo stesso non può dirsi per l’aspetto tecnico dell’animazione.
Il regista Aramaki noto mecha designer, fa muovere i personaggi in motion captured all’interno di spettacolari simulazioni in 3d senza tuttavia rinunciare alla  specificità iconografica ed espressiva  degli anime giapponesi. In breve, la scelta è quella di mantenere alcuni tratti manga – fra tutti il volto, delicato ricettacolo di passioni –  e di subordinare la tecnica allo stile.
Il risultato è pregevole, ma non straordinario. Sembra ancora lontana la perfetta integrazione fra i mondi della computer graphic  e gli occhi brillanti e limpidi delle protagoniste Deunan ed Hitomi. Tanto da far venire il dubbio, che il vero capolavoro non sia che quel flebile brillio dello sguardo, un dettaglio solitamente trascurato e che solo tanto metallo e tecnica potevano valorizzare…




STEAMBOY di Otomo Katsuhiro (Giappone. 2004)
Ray, ultimo discendente dei geniali Steam è un ragazzino di Manchester con il pallino per la meccanica.. Il padre ed il nonno sono dei celebri inventori emigrati in America per studiare le proprietà della forza a vapore. Un giorno Ray riceve un pacco dal nonno, contenente una misteriosa sfera di metallo e delle bozze di progetto.
Siamo in epoca vittoriana in piena rivoluzione industriale, la sfera – una sorta di contenitore di vapore ad altissima pressione – diventa il contenzioso fra inventori, fondazioni di ricerca e costruttori di armi. Sarà compito di Ray cercare di proteggere il sapere scientifico dagli inevitabili abusi e dalle ciniche ambizioni dei protagonisti della nuova era tecnologica.
Questa la storia con cui Otomo si ripresenta al pubblico sedici anni dopo Akira. Ancora una volta il tema è quello della minaccia tecnologica, della convivenza e connivenza con le macchine, con la differenza che stavolta si parte dal futuro delle origini, un racconto “steam punk” (versus cyberpunk) come ama definirlo Otomo stesso.
Di indiscutibile fascinazione, l’animazione di macchinari da proto industria pesante ben si adegua al ritmo serrato della narrazione e alle claustrofobiche quanto magnificenti passioni di gloria dei protagonisti. Un’ opera esteticamente perfetta, realizzata con le più recenti tecniche di animazione ed elegante, (cura dei particolari) seppur priva della forza visionaria delle prove precedenti. Se in Akira la tensione ed il ritmo passionale erano affidate alle immagini e al montaggio qui il procedimento è opposto: l’intreccio cerca goffamente di dare un senso a tanta perfezione formale, giungendo ad un risultato imbarazzante. Nonostante il proliferare di personaggi e di eventi, nonostante il susseguirsi di esplosioni e falsi allarmi,  la latente potenza distruttrice della sfera viene assunta ma non “patita”. Che sia proprio questa la chiave del film. Otomo documenta con freddezza un dato di fatto, distruzione e progresso non sono che un punto di vista. Un’ambiguità di prospettiva ed un cinico realismo che mentre regolano le interazioni fra personaggi ( credere al nonno o al padre?), la costruzione degli oggetti (la giostra per bambini sul tetto della mortale torre meccanica) suggeriscono interpretazioni per un futuro che è già storia (vedi le sequenze dei titoli di coda con Ray inventore o piuttosto soldato aviatore)
Niente di più agghiacciante che la fede in un scienza neutra.
Onestamente in tempi come questi avremmo preferito l’otomo veggente di akira, il dito puntato piuttosto che la constatazione distaccata e velatamente rassegnata di un futuro già scritto…l’apocalisse muove, la genesi consola



Il castello errante di Howl (di Miyazaki Hayao, Giappone 2004)
Tratto da un romanzo fantasy di Dyanne Winne Jones, Hayao Miyazaki sceglie ancora una volta il vecchio continente per sviluppare un tema quasi tabù: la vecchiaia. La giovane Sophie caduta preda dell’ incantesimo della strega delle Lande Desolate  è costretta a vivere in un corpo di vecchia. E’ da questo nuovo corpo che imparerà a conoscere il mondo, l’amore, l’amicizia, la compassione.
Una trama semplice per dei contenuti delicati. La forza intima della vecchiaia, l’ambiguità di bene e male, le demagogie del giusto e del sbagliato. Così come era per La città incantata, anche qui essere onesti non è una garanzia contro la meschinità ed il cinismo. Tanto quanto la giovinezza non è una garanzia di crescita o la bellezza una garanzia di piacere.
I personaggi ruotano attorno ad un’ambiguità disarmante e commovente; un’ambiguità suggerita a livello figurativo dalle frequenti metamorfosi di Sophie, quasi l’età fosse a sua volta un essere vivente, che si espande e si contrae impercettibilmente.
Il trasporto è immediato. Il demone calcifer od il signor spaventapasseri prendono spazio nel nostro immaginario quasi dovessero risiedervi da sempre.
Ancora, si fa notare, in un festival espressamente dedicato alle possibilità espressive delle nuove tecnologie, la preferenza di Miyazaki per il tradizionale 2D. Una scelta vincente. La scena del volo di Haru e Sophie non ha confronti con le impeccabili simulazioni in computer graphic. Qui il volo è vero. Ed è un volo dell’anima prima di tutto. Un film che è un balsamo per il cuore. Grazie Maestro.