Ho scritto questo articolo nel 2004 a firma Kchan (k sta per kitty mio nome da bambina), per la webzine italian "sands-zine" (www.sands-zine.com).
Probabile inconscio tentivo di sistematizzare l'estetica impro di IOIOI, prima di dimenticare la mappa...
Music and Dance: l’improvvisazione è ancora viva? Suggerimenti dal Butoh.
(by IOIOI, 2004, Italia)
Si è da poco concluso in Italia, a Lerici, il secondo festival internazionale dedicato alla danza butoh: la Danza di confine, II festival di assoli Butoh.
Il butoh è una forma contemporanea di teatrodanza giapponese emersa alla fine degli anni 50 ad opera di Tatsumi Hijikata e Kazuo Ohno. Detto questo, fornirne una descrizione esaustiva che non susciti disapprovazioni e perplessità è decisamente impossibile. Non esiste una forma butoh codificata, così come non esiste un training specifico all’interno delle scuole stesse. Si dice nell’ambiente che esistano tanti butoh quanti sono i suoi danzatori.
Secondo il Dizionario dello spettacolo della Baldini & Castoldi il butoh è un’espressione corporea fondamentalmente interessata all’autenticità: “il viso ed il corpo sono torti, contratti, in posizioni grottesche, anormali, eccessive, ma il tutto avviene spesso con estrema lentezza”.
Le note introduttive al festival di Lerici, benché rivelino un meritevole sforzo di codificazione e di integrazione con realtà più vicine a noi, peccano di un certo tono new-age che trasuda del solito imbarazzo per l’ineffabile: “la danza Butoh riprende l’eredità della danza espressionista europea e la sviluppa incorporandola nella visione corpo-anima-psiche che conserva il suo legame originario con l’universo”.
Nonostante il butoh sfugga a facili catalogazioni e viva di una scarsa diffusione, la critica occidentale si è dimostrata fin dagli esordi comunque attenta e di fronte all’impenetrabilità interpretativa tipica delle arti orientali, le analisi spesso si sono rivolte a possibili parallelismi con pensatori dell’avanguardia europea, primo fra tutti il teatro della crudeltà di Artaud e il suo Corpo senz’Organi (ipercitato in questa epoca di pubblicitari forse più per l’etichetta ad effetto - CsO - che per l'effettivo valore euristico). Se volete approfondire le origini e gli sviluppi teorici del butoh (e conoscete il francese) vi consiglio di procurarvi l’opera più esaustiva sull’argomento, uscita nel 2002 col titolo Buto(s) (O.Aslan, B.Picon-Vallin, eds. CNRS Editions, Paris) Un’antologia davvero bella, ricca di foto, esperienze e storie che attraversa la pluralità delle scuole e degli stili nel suo complesso senza troppe derive.
Tuttavia, i commenti più interessanti a proposito del Butoh spesso non vengono dalla critica ma da performers di discipline artistiche complementari, come la musica.
In particolare, nel corso degli anni si è stabilita un’originale e fatale attrazione fra l’improvvisazione musicale contemporanea ed il butoh. Attenendosi al solo 2004, almeno un paio di notevoli coppie di improvvisatori si sono già esibite in Europa: Tadashi Endo (danza butoh) - Sainkho Namtchylak (voce); Tristan Honsinger (cello) - Hisako Horikawa (danza butoh).
Dall’autenticità e spietatezza del butoh e soprattutto dalle esperienze collettive di danza e musica, arrivano suggerimenti sul senso dell’improvvisazione: suggerimenti spesso tanto poco intelligibili quanto paradossalmente evidenti.
Traduco letteralmente da una celebre intervista del 1996 a Keiji Haino, inesauribile improvvisatore e raffinato interprete di musica butoh, direi.
“Quando inizialmente cominciai a pensare al suono, avevo intenzione di produrre una musica che fosse totalmente mia. Non qualcosa che appartenesse ad un genere. Volevo fare qualcosa di nuovo, ma dal momento che sono un musicista devo utilizzare gli strumenti, giusto? Vorrei fare una distinzione con i Dadaisti ossia gente che non produce alcun suono e chiama tutto ciò musica. Per quel che mi riguarda è solo un concetto che non va al là del cervello, e non sono dei musicisti (…) I Dadaisti colpirebbero senza senso una macchina da scrivere, solo perché è interessante come atto, e la chiamerebbero composizione. Invece di usarla per produrre un ritmo o come strumento musicale, lo tratterebbero come un oggetto a senso unico. Non ho alcun interesse in questo tipo di “musica”. Volevo venirmene fuori con un concetto che fosse il più originale possibile. Così, tornando indietro i musicisti devono produrre suoni- l’intero problema del perché e del come il suono appare è qualcosa a cui puoi pensare per te. Ed è qualcosa a cui dovresti pensare - in un senso, i musicisti ordinari producono suoni e non pensano mai al perché e al come. I cosiddetti compositori contemporanei lavorano ad un livello più profondo pensando a questioni del tipo perché appare la musica e perché esiste. Ma ci pensano solamente. Io credo che sia inaccettabile una simile espressione in cui pensare a questioni come queste non equivale al fare musica. Credo che se vuoi mostrare qualcosa alla gente allora devi fisicamente produrre suoni effettivi, non solo concetti.
Così una volta capito questo, ho preso diversi strumenti ed iniziato a pensare a come poter produrre suoni con questi strumenti che già esistevano. Puoi semplicemente colpirli, pizzicarli o soffiarci dentro (…) Quando ho pensato a come produrre il suono, ciò che fondamentalmente ne è derivato è stata la relazione fra me e uno strumento. Così l’unica cosa concessa era di scoprire nuovi movimenti corporei e di creare la musica in questo modo. Proprio in quel periodo ebbi l’occasione di vedere del butoh. Da allora l’utilizzo del corpo è stato il mio tema principale. Per esempio quando percuoto qualcosa non lo faccio in maniera brusca, sospendo l’azione o la interrompo semplicemente prima o appena dopo l’effettiva percussione dell’oggetto. Non esiste alcuna parola per esprimere o spiegare questo tipo di azione – tutto ciò che posso fare è muovere il mio corpo e mostrarlo alle persone. E’ qualcosa che non può emergere nemmeno dalle registrazioni audio, devi farne l’esperienza (…)” (Keiji Haino, 1996, www.halana.com/haino4.html)
Sì dunque alla sperimentazione corporea, luogo di generazione del suono e del senso, ma che sia soprattutto una sperimentazione consapevole, suggerisce Haino.
L’ improvvisazione dovrebbe o potrebbe esser questo (magari la finiremmo con gli sterili dibattiti sul valore artistico delle jam-session). A partire dalla relazione imprescindibile fra il corpo e lo strumento si apre uno spazio di libertà e solitudine. Ed insieme alla libertà la vertigine “sto scegliendo…”. Il danzatore butoh Ko Muruboshi utilizza di frequente, durante i suoi seminari, immagini angoscianti e violente come camminare su un tappeto di neonati che urlano “non uccidermi”. La violenza dell’immagine non è funzionale ad un livello rappresentativo - la rappresentazione è l’anti-butoh per eccellenza. Al contrario l’idea è che il danzatore aderisca in maniera efficace ad una tensione dell’esistenza specifica: ogni passo è “la tua decisione”. Insomma si è liberi di muoversi, ma ogni gesto comporta una decisione, un’incisione sullo spazio e sul tempo, una creazione di cui si è responsabili. “Il tempo e lo spazio sono più fragili di te” ripete Muruboshi. La libertà si espande, sale la vertigine, il movimento del corpo diviene un concatenamento di immagini-affezione, direbbe forse Deleuze (“l’affezione è ciò che occupa l’intervallo, ciò che lo occupa senza riempirlo”). Ogni decisione allora richiede un ascolto attento. Ascolto, ascolto bene e poi decido dove andare e come andare. Il che non equivale ad un calcolo o ad una paralisi riflessiva - il piano della rappresentazione - : tutto avviene nel tempo vertiginoso ed angosciante dell’immanenza e dell’imminenza. E’ il tempo dell’affezione, la relazione occupa l’intervallo e lo spazio non riempito è la tua libertà. Sei proprio qui col tuo gesto, fai l’esperienza del tempo e dello spazio, ed è la prima volta.
Mi ha sempre incuriosito il concetto di pattern di improvvisazione. Si impara davvero ad improvvisare ed il training, nella maggior parte dei casi, non ha niente a che vedere con ciò di cui parla Haino. A scuola di free jazz impari le formule per il fuori scala giusto, quasi fosse una palestra di kung fu di serie B (i trucchetti per far male). E a quel punto davvero non ha più senso tener alta la bandiera dell’improvvisazione. Fra impeccabili esecutori di stile Zorn e dadaisti del non-sense le ragioni dell’improvvisazione si spengono miseramente. Eppure basterebbe tornare alla domanda e farne l’esperienza, perché la sperimentazione si imponga di nuovo come frontiera di ricerca inesauribile. Se ogni musicista fosse onesto e si ponesse davvero la questione della relazione, della decisione, della responsabilità ossia della libertà, avremmo un’infinità di nuovi suoni, la “nuova” musica di cui parla Haino. Perché ogni gesto è l’espressione di una relazione unica ed irripetibile, con se stessi, con lo strumento, col suono, con il pubblico, con gli odori, con lo spazio, col tempo. Questo è il butoh.
Qualche tempo fa in Italia girava una compagnia di danza contemporanea che aveva temporaneamente accolto alcuni danzatori down. Il tutto faceva parte di un progetto di formazione per l’integrazione dei disabili, raccolta di fondi e via dicendo. Lo spettacolo consisteva in una prima coreografia corale di danzatori professionisti di contemporanea ed in un finale di improvvisazione a coppie: un down, un danzatore professionista. Ebbene non c’era confronto. Mentre il danzatore professionista si dimenava in sequenze ad effetto prese un po’ a caso dal vocabolario della sperimentazione contemporanea, il ballerino down semplicemente aderiva al movimento con tutto lo slancio della propria esistenza. Solo la sua danza aveva un senso.
Ed è in esperienze come queste che balena come un’evidenza la differenza fra l’improvvisazione sensata e l’imbarazzante repertorio di fraseggi non idiomatici che la ricerca contemporanea ha prodotto.
Naturalmente le rotture con l’accademismo sono state necessarie ed interessanti, ma non si capirebbe perché stiamo attualmente vivendo la fuga di musicisti verso i territori della composizione ortodossa, se non ci fosse stato ad un certo punto un ripiegamento della ricerca ed una cristallizzazione delle proprie scoperte. Tutto diventa lessico, non si sfugge alle forme (lo stile Zorn appunto).
Come suggerisce Haino, se davvero ha un valore il porsi la domanda sul perché e sul come del suono, allora dovremmo fare un passo indietro e ricominciare ad ascoltare me e lo strumento, me e lo spazio e il mondo di creazione e responsabilità che si apre.
Naturalmente il discorso di Haino è più complesso - l’idea della sospensione del gesto - ma il focus sulla relazione mi sembra centrale per rilanciare la ricerca sull’improvvisazione.
Da questo punto di vista capolavoro indiscusso è “Music and Dance” del duo Derek Bailey e Min Tanaka, danzatore butoh.
Vale la pena di ascoltarlo fosse solo per la lacerazione sonora inferta dalla pioggia che risale lentamente dal fondo fino ad occupare l’intero spazio acustico (“Rain Dance”). Un improvvisatore onesto è quello che apre il tempo ad altri suoni, ad altri temporanei strumenti ed accade che la macchina da scrivere di cui parla Haino cessi di essere oggetto per divenire macchina ritmica o grillo parlante e che la pioggia faccia da contrappunto al tuo strumento, quasi ne fosse la naturale appendice da sempre.
La danzatrice Hisako Horikawa - una delle prime allieve tra l’altro del compositore Takehisa Kosugi dei Taj Mahal Travellers - consiglia di tenere fissi solo due elementi nel corso di una performance improvvisata: come partire (a terra, appoggiato ad un albero, in piedi) ed un’idea molto vaga di percorso (fare un percorso ad esse, alzarsi in piedi e via dicendo). Il resto è il tempo della libertà: ascolto la relazione, prendo una decisione, non so più qual è il mio scopo, ascolto ancora più attentamente il mio corpo, lo spazio, arriva…“simply, just following…”
Accade allora qualcosa. Magari scopri che il tuo spazio di libertà non è che un fascio di tensioni in libera trasformazione. L’improvvisazione diventa un rituale collettivo di reciproche metamorfosi, sei tu che danzi l’albero o è l’albero che danza te, indifferentemente. Ed ancora qui Keiji Haino è molto lucido. Haino il blasfemo afferma che fare musica davanti un pubblico è un po’ come diventare dio: “è facile diventare dio, difficile è mantenere quel potere, che perciò va restituito”.
Haino prima delle sue performance respira il pubblico, poi lo restituisce. L’improvvisazione è il nostro rituale contemporaneo, io e l’altro ci respiriamo, diventiamo qualcos’altro e poi di nuovo noi stessi. E non siamo più gli stessi…qualcosa ci ha affettato con violenza, in tutti i sensi. Il corpo ne ha memoria.