giovedì 6 maggio 2010

:: Speciale FUTURE FILM FESTIVAL 2005 (IOIOI, 2005)

articolo scritto da Kitty (ossia, IOIOI, ossia Cristiana)nel 2005 per la rubrica da lei diretta "Transasia" -  www.kathodik.it.
Reportage dal Future Film Festival 2005, Bologna.
Kathodik - Transasia Special Future Film Festival 2005 Bis


Curiosità Ancora Dal FFF 2005!!!







Di Kitty Chan  

Il FUTURE FILM FESTIVAL si apre quest’anno con un evento straordinario: la presentazione di alcuni corti d’animazione giapponese degli anni ‘20 sonorizzati in tempo reale da Ikue Mori.
Le animazioni d’epoca trattano per lo più di leggende popolari e racconti shinto. Gli autori sono diversi, da Yasuji Murata a Noburou Oofuji, nomi che al di là degli ambienti della critica non suonano troppo familiari agli amanti degli anime giapponesi. Eppure è da qui che tutto ha inizio. L’equilibrio fra sperimentazione e standard di produzione è sorprendente. In particolare Murata – “Le olimpiadi degli animali” o “La scimmia va a pesca”- sembra anticipare tutti quelli che saranno gli ingredienti di genere negli anni a venire. I suoi personaggi, tratti da un’evidente repertorio animista, sono per lo più animali – scimmie, maiali, tartarughe – fortemente caratterizzati in maniera caricaturale e con uno stile iconografico molto vicino al successivo Tezuka.Le storie, anche quando si appoggiano a leggende o a detti popolari, mostrano già quel taglio fra l’ironico e l’onirico che è oggi notoriamente uno fra gli attributi strutturali del manga classico. L’esigenza sperimentale varia: dal montaggio narrativo, con un sapiente utilizzo di flash back, inserti onirici o sequenze ad incasso a suggerire una profondità temporale, alle formule sincretiche, fra stile astratto e figurativo – in particolare il bellissimo “La lepre e la tartaruga” di Yamamoto Tosanae. Infine colpisce la delicatezza delle opere, per forma e contenuto. Una delicatezza sicuramente resa più suggestiva dal tempo e da un supporto sempre sul punto di cedere (più volte la proiezione è stata interrotta per i salti di pellicola). In sala Ikue Mori, sotto lo schermo, di lato, si cimenta in colonne sonore estemporanee, munita del solito laptop e del proprio inconfondibile gusto. Frammenti di suono, tocchi percussivi, brevi manipolazioni elettroniche, piogge di microwave, in stile Mori. Risultato spettacolare.
Nulla a che vedere con un rapporto di aggancio referenziale al visivo. Il suono ritarda o anticipa gli sviluppi narrativi, oppure suggerisce un particolare, senza mai eccedere in caratterizzazione, senza mai retrocedere a suono d’ambiente.





La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou, Cina/Hong Kong, 2004
Oramai uscito nelle sale da qualche mese, non ha bisogno di presentazioni. Un accenno alla trama ed un personalissimo commento.
Xia-Mei danzatrice cieca della casa dei « fiori » viene sospettata di appartenere al clan clandestino dei pugnali volanti, minaccia e timore dell’imperatore della Cina nell’anno 859 d.c. La ragazza viene arrestata e sottoposta a tortura allo scopo di ottenere quante più informazioni possibili sull’organizzazione interna del clan. Realizzata l’inutilità degli interrogatori i comandanti della polizia decidono di attuare un subdolo piano: il capitano Jin travestito da cavaliere errante – Vento - l’aiuterà ad evadere dalla prigione e a ricongiungersi con gli altri componenti del clan. Nel frattempo il capitano Leo li seguirà di nascosto con la speranza di scoprire il covo segreto del capo clan. Durante il viaggio attraverso foreste di bambù e distese di fiori selvaggi, la danzatrice e il falso cavaliere si innamoreranno: un amore che nonostante i travestimenti, le menzogne e gli agguati sarà destinato a manifestarsi…
Gli elementi di genere ci sono tutti: la cospirazione, le arti marziali, lo spionaggio, il sembrare piuttosto che l’essere, il regime della menzogna al servizio della verità. Qualche critico vi ha voluto leggere un omaggio al capolavoro di King Hu “A touch of zen”.
Sì e no. Se dal punto di vista formale ed estetico i due film condividono lo stesso gusto per il pittorico e l’astratto, stesso non può dirsi per l’impianto narrativo e l’intreccio passionale. Là dove King Hu resta fedele alla logica cinese dell’influenza indiretta fino a fare della regia stessa una potente operazione di controspionaggio, Zhang Yimou  cede all’esplicito, alla manifestazione, alla dichiarazione. Risultato: i più alti valori dell’etica cinese declinano in una penosa caricatura, le sequenze di combattimento – private del “pensiero cinese”- si fanno notare solo per l’aspetto spettacolare ed anche le soluzioni di genere più convenzionali, il fantastico su tutto, perdono di efficacia finendo per restituire uno sgradevole effetto di artificiosità. Ma a  quale scopo tradire il valore dell’implicito, in un film espressamente dedicato alla tradizione ? A quanto pare l’autore ha voluto focalizzarsi sulla storia d’amore dei due protagonisti. L’amore esplode e  porta a svelamento il silenzioso passaggio della logica indiretta.  Ed “esplodere” significa inevitabilmente turbare l’equilibrio…ossia provocare una tragedia.
Eppure anche qui le cose non tornano. Che i due protagonisti si siano davvero innamorati è un evento quasi imposto. Per tutta la durata del film i sentimenti sono messi a tacere e l’amore  non è che il banale effetto di senso di una faticosa costruzione romantica. Edulcorato fino all’esasperazione – anche visivamente, vedi i ritocchi in digitale – l’ultima fatica di Zhang Yimou desta il sospetto che la volontà di una produzione esportabile  stavolta fosse più forte di qualsiasi motivazione creativa.




Paranoia Agent (Mousou Dairinin, di Satoshi Kon, Giappone 2004)


Satoshi Kon conferma il proprio talento con Paranoia Agent. Chi ha avuto modo di apprezzarlo per Perfect Blue e Tokyo Godfather non dovrà assolutamente mancare l’appuntamento con quest’ ultima prova.
La prima puntata si sviluppa attorno alla storia di una designer schiva e sognatrice alle prese con un l’ardua impresa di progettare un personaggio che raggiunga la fama del precedente. “Fortunamente”  proprio allo scadere della consegna sarà vittima dell’aggressione di un misterioso ragazzino in roller blade e mazza da baseball. I seguenti episodi vedranno altre vittime della medesima aggressione, tutte legate da un indiscernibile ed imperscrutabile filo conduttore.
Grafica accattivante, colonna sonora raffinata, montaggio articolato ed un intreccio per nulla ovvio sono gli ingredienti che rendono quest’opera un gioiello dell’animazione seriale. Per il momento l’impressione è che Kon abbia saputo tradurre in tavole animate la formula che fu di Lynch per Twin Peaks: l’ombra perturbante dell’esistenza nel quotidiano.




Appleseed di Shinji Aramaki, Giappone 2004

Anno 2131. la guerriera Deunan Knute viene rapita e condotta ad Olympus metropoli votata al mantenimento della pace per metà abitata da Bioridi, degli  androidi generati per clonazione, del tutto simili agli umani ma privi della capacità di provare emozioni. Ad Olympus Deunan incontrerà l’ex compagno cyborg Briaeros e si troverà coinvolta in intricate e sanguinolente cospirazioni. Appleseed di certo non si fa apprezzare per l’aspetto narrativo o scenografico:  gli ambienti, i cyborg, le macchine, tutto risponde ad una convenzione di genere ben riconoscibile- fantascienza o cyberpunk. Nessuna caratterizzazione particolare dei personaggi, nessuno scarto dalla sintassi standard di un anime d’azione.
Lo stesso non può dirsi per l’aspetto tecnico dell’animazione.
Il regista Aramaki noto mecha designer, fa muovere i personaggi in motion captured all’interno di spettacolari simulazioni in 3d senza tuttavia rinunciare alla  specificità iconografica ed espressiva  degli anime giapponesi. In breve, la scelta è quella di mantenere alcuni tratti manga – fra tutti il volto, delicato ricettacolo di passioni –  e di subordinare la tecnica allo stile.
Il risultato è pregevole, ma non straordinario. Sembra ancora lontana la perfetta integrazione fra i mondi della computer graphic  e gli occhi brillanti e limpidi delle protagoniste Deunan ed Hitomi. Tanto da far venire il dubbio, che il vero capolavoro non sia che quel flebile brillio dello sguardo, un dettaglio solitamente trascurato e che solo tanto metallo e tecnica potevano valorizzare…




STEAMBOY di Otomo Katsuhiro (Giappone. 2004)
Ray, ultimo discendente dei geniali Steam è un ragazzino di Manchester con il pallino per la meccanica.. Il padre ed il nonno sono dei celebri inventori emigrati in America per studiare le proprietà della forza a vapore. Un giorno Ray riceve un pacco dal nonno, contenente una misteriosa sfera di metallo e delle bozze di progetto.
Siamo in epoca vittoriana in piena rivoluzione industriale, la sfera – una sorta di contenitore di vapore ad altissima pressione – diventa il contenzioso fra inventori, fondazioni di ricerca e costruttori di armi. Sarà compito di Ray cercare di proteggere il sapere scientifico dagli inevitabili abusi e dalle ciniche ambizioni dei protagonisti della nuova era tecnologica.
Questa la storia con cui Otomo si ripresenta al pubblico sedici anni dopo Akira. Ancora una volta il tema è quello della minaccia tecnologica, della convivenza e connivenza con le macchine, con la differenza che stavolta si parte dal futuro delle origini, un racconto “steam punk” (versus cyberpunk) come ama definirlo Otomo stesso.
Di indiscutibile fascinazione, l’animazione di macchinari da proto industria pesante ben si adegua al ritmo serrato della narrazione e alle claustrofobiche quanto magnificenti passioni di gloria dei protagonisti. Un’ opera esteticamente perfetta, realizzata con le più recenti tecniche di animazione ed elegante, (cura dei particolari) seppur priva della forza visionaria delle prove precedenti. Se in Akira la tensione ed il ritmo passionale erano affidate alle immagini e al montaggio qui il procedimento è opposto: l’intreccio cerca goffamente di dare un senso a tanta perfezione formale, giungendo ad un risultato imbarazzante. Nonostante il proliferare di personaggi e di eventi, nonostante il susseguirsi di esplosioni e falsi allarmi,  la latente potenza distruttrice della sfera viene assunta ma non “patita”. Che sia proprio questa la chiave del film. Otomo documenta con freddezza un dato di fatto, distruzione e progresso non sono che un punto di vista. Un’ambiguità di prospettiva ed un cinico realismo che mentre regolano le interazioni fra personaggi ( credere al nonno o al padre?), la costruzione degli oggetti (la giostra per bambini sul tetto della mortale torre meccanica) suggeriscono interpretazioni per un futuro che è già storia (vedi le sequenze dei titoli di coda con Ray inventore o piuttosto soldato aviatore)
Niente di più agghiacciante che la fede in un scienza neutra.
Onestamente in tempi come questi avremmo preferito l’otomo veggente di akira, il dito puntato piuttosto che la constatazione distaccata e velatamente rassegnata di un futuro già scritto…l’apocalisse muove, la genesi consola



Il castello errante di Howl (di Miyazaki Hayao, Giappone 2004)
Tratto da un romanzo fantasy di Dyanne Winne Jones, Hayao Miyazaki sceglie ancora una volta il vecchio continente per sviluppare un tema quasi tabù: la vecchiaia. La giovane Sophie caduta preda dell’ incantesimo della strega delle Lande Desolate  è costretta a vivere in un corpo di vecchia. E’ da questo nuovo corpo che imparerà a conoscere il mondo, l’amore, l’amicizia, la compassione.
Una trama semplice per dei contenuti delicati. La forza intima della vecchiaia, l’ambiguità di bene e male, le demagogie del giusto e del sbagliato. Così come era per La città incantata, anche qui essere onesti non è una garanzia contro la meschinità ed il cinismo. Tanto quanto la giovinezza non è una garanzia di crescita o la bellezza una garanzia di piacere.
I personaggi ruotano attorno ad un’ambiguità disarmante e commovente; un’ambiguità suggerita a livello figurativo dalle frequenti metamorfosi di Sophie, quasi l’età fosse a sua volta un essere vivente, che si espande e si contrae impercettibilmente.
Il trasporto è immediato. Il demone calcifer od il signor spaventapasseri prendono spazio nel nostro immaginario quasi dovessero risiedervi da sempre.
Ancora, si fa notare, in un festival espressamente dedicato alle possibilità espressive delle nuove tecnologie, la preferenza di Miyazaki per il tradizionale 2D. Una scelta vincente. La scena del volo di Haru e Sophie non ha confronti con le impeccabili simulazioni in computer graphic. Qui il volo è vero. Ed è un volo dell’anima prima di tutto. Un film che è un balsamo per il cuore. Grazie Maestro.